Sconquasso nel mondo delle cure

Da: Grazia Miccichè, infermiera in casa anziani

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un notevole cambiamento della professione infermieristica: sono aumentate le mansioni di documentazione in seguito alla digitalizzazione e si è aggiunto un notevole carico burocratico. Ci viene richiesto di essere efficienti, seguire procedure standard in modo da rispettare gli indici di qualità che ci permettono l’accesso ai finanziamenti (cosa importantissima) e l’atto tecnico ha la priorità.

© Unsplash

A seguito di questa nuova articolazione del “tempo di lavoro” è diminuito il tempo da dedicare alla persona malata: tempo che serve a umanizzare le cure, tempo necessario per ascoltare ed accogliere la paura, la rabbia, la sofferenza dell’altro e della famiglia, poiché questo tempo purtroppo non è convertibile in denaro e non rientra nei piani di cura.

Il lavoro in ambito sociosanitario produce uno stress emotivo notevole, che deriva anche dalla difficoltà di conciliare il lavoro con la famiglia: turni spossanti, orari irregolari, continui cambi di pianificazione, senso di colpa nei confronti dei nostri affetti più cari. Sottoporsi continuamente a questi ritmi espone la nostra categoria con più facilità allo sviluppo del burnout. Tutto questo rende la professione molto faticosa e il tasso di abbandono è più elevato rispetto ad altri mestieri.

Il cambiamento generato dalla pandemia
Il nostro è sempre stato un lavoro difficile e spesso le carenze del sistema ci sono state buttate addosso, accusandoci d’incapacità e di poca professionalità: con la pandemia all’improvviso siamo diventati eroi.

In effetti le conseguenze della pandemia hanno amplificato maggiormente le tendenze che ho sopra descritto. Quest’ultimo anno, pur essendo una categoria abituata da sempre alla fatica e ad orari impossibili, abbiamo dovuto affrontare l’emergenza sanitaria e ci siamo dovuti reinventare per affrontare un nemico invisibile, che assieme alla vita dei pazienti mette a rischio anche quelle delle operatrici e degli operatori sanitari. Alla base c’è stata la paura di essere contagiati, la paura di contagiare: questo ci ha fatto perdere la distinzione fra essere al lavoro e essere a casa.La conseguenza di ciò che accade sul lavoro ha influenzato pesantemente la nostra vita personale e familiare con l’auto-isolamento: vicini -lontani.

Al lavoro i rapporti sia con i colleghi che con i pazienti sono cambiati radicalmente: vicini-lontani.

Riprendendo una parola sempre più diffusa, si è finito per avere la sensazione di essere in un LOOP -termine che indica un’azione ripetuta infinitamente, in cui tutti i giorni sono uguali.

Nel pieno della pandemia molte operatrici ed operatori sanitari hanno gestito un trauma incredibile: il doppio senso di colpa per non essere riusciti a far di più e a causa del dubbio di aver diffuso il contagio verso altri pazienti o verso i loro familiari. Infatti essi hanno visto morire molte persone ,hanno vissuto quotidianamente un senso profondo di frustrazione, inadeguatezza, impotenza e un intenso distress (stress negativo).

Prioritario tutelare la salute del personale
L’emergenza sanitaria, assieme allo stress emotivo causato delle condizioni di lavoro determinate dalla pandemia e dalle inefficienze del sistema, rischia di mettere a dura prova psicologicamente tutto il personale sociosanitario, che ha fatto sforzi eccezionali per superare questa crisi.

A mio avviso occorre prevedere un piano per evitare la sindrome del lavoratore bruciato. Ci vuole un vero supporto per affrontare crisi di depersonalizzazione e di distacco emotivo. Se il burnout non viene affrontato subito, esso rischia di portare ad inabilità lavorativa; e in alcuni casi porta alla volontà di dimettersi, cosa che a volte diventa l’unico modo per riappropriarsi della propria vita.